Il concetto di morte in Filosofia: dall'antica Grecia al Cristianesimo tra stoicismo e speranza.

 

parmenide

La morte è necessaria e quella di un figlio non è contro natura. Se così fosse, la mente non si soffermerebbe su questo pensiero tanto spesso e l'accadere di un tale evento sarebbe considerato impossibile al punto da non rivolgere neanche un solo pensiero a un'idea tanto lacerante. La morte del figlio è naturale, è possibile ed è questo suo essere possibile, questo poter accadere che rende anche solo l'idea, il pensiero, l'allusione indicibilmente insopportabili. Tutto ciò che accade è necessario - sosteneva il primo tra i filosofi presocratici Parmenide (515 a.C.) -, perché se accade vuol dire che non poteva essere altrimenti. Nella filosofia occidentale, che sia antica, moderna o contemporanea, il tema della morte è tra i più studiati, sviscerati e spiegati nel tentativo, forse vano, di consolare l'essere umano aiutandolo a costruire argini contro il dolore.

Secondo gli antichi greci il contrario della vita non è la morte, perché la vita “è” e quindi il suo contrario è il “non essere” e non la morte che, invece, così come la vita fa parte dell'esistenza. Ma allora cos'è la morte? La morte è l'implosione dei sensi, è il vuoto improvviso, è l'attimo in cui si è scaraventati nella dimensione tragica dove non esiste la speranza, ma solo la feroce consapevolezza dell'insensatezza dell'esistenza umana: gli esseri umani trascorrono decenni a dare senso alla vita eppure sanno di dover morire, da qui l'insensatezza della vita stessa. Questo lo scenario per gli antichi greci (prima dell'avvento del cristianesimo): la vita è priva di senso, perché destinata a finire e di questa fine è pure inutile avere paura secondo il filosofo Epicuro (314 a.C 260 a.C.), perché “quando la morte è noi non siamo più”.

Per gli antichi greci il tempo è ciclico e il tempo della vita segue quello della natura con i suoi cicli infiniti in cui tutto si perde, in quest'ottica ciclica e necessaria, la morte si inserisce come un evento facente parte dell'esistenza di ogni essere vivente e quindi non si può che accettarla e accoglierla serenamente. I cristiani introducono invece il tempo escatologico, quello che ha una fine e che vede in quella fine la realizzazione delle promesse fatte all'inizio di tutto. Da qui il concetto di speranza che i greci invece non conoscevano: il credere a una vita dopo la vita e all'eternità dell'anima, il considerare la vita come un ponte per un'altra vita. Credere nel futuro dà luogo, quindi, al concetto di speranza introdotto dai cristiani, secondo cui un tempo migliore deve sempre ancora venire, da qui nasce il sentimento che in qualche modo consola di fronte all'evento della morte: dopo c'è altro, dopo saremo salvi, dopo saremo eterni. La vita viene svuotata del suo senso più profondo, quello della realizzazione nel presente, sostituito dall'illusione di un futuro migliore che prima o poi si realizzerà.

La verità è che siamo semplicemente prodotti della specie e il nostro essere un “io” che progetta e che spera non è altro che il rifiuto di essere semplicemente viventi che non hanno altro scopo se non quello di vivere. Il cristianesimo ci ha fornito illusioni inconsce che consolano, sostengono là dove tutto viene a mancare e riempie i vuoti con la speranza e l'attesa di un tempo in cui il progetto divino si compirà e saremo tutti salvi nel corpo e nell'anima. Ma chi tra gli esseri umani contemporanei è più vicino alla grecità tragica che all'escatologia cristiana deve avere a che fare con il concetto di morte fine a se stessa che non promette e non consola, che non consiglia di attendere nella speranza della vita eterna e non vede nella morte un ponte per l'aldilà in cui un giorno le anime si rincontreranno, ma il baratro della consapevolezza che in fondo la morte è solo parte della vita. La razionalità greca pone l'essere umano da solo di fronte alla necessaria tragicità dell'esistenza e nel caso della morte di un figlio ciò significa accettarla con apatìa stoica, come qualcosa che non poteva non essere, come quando ad Anassimandro (610 a.C 546 a.C.) fu comunicata la morte del figlio e lui rispose “Sapevo di averlo generato mortale”. L'avvento della religione cristiana ha il merito di aver creato l'illusione della vita eterna, di un aldilà, di un fine che dinnanzi a un tale incomprensibile evento ha il potere - quantomeno – di mitigare il più grande dolore che un essere umano possa provare con la speranza e l'attesa di un ricongiungimento alla fine di tutti i tempi.

Oggi, nell'epoca del nichilismo annunciato da Friedrich Nietzsche (1844-1900) e tutt'ora in atto nella sua parabola ancora ascendente, nell'era della svalutazione di tutti i valori c'è da constatare che dinnanzi alla morte e, soprattutto, dinnanzi alla morte di un figlio né stoicismo, né speranza creano argini al dolore. Si è investiti, dilaniati, sbranati e lacerati nel corpo e nella mente dal pensiero assordante di un vuoto eternamente pieno di ricordi, voci, occhi e mani che non saranno mai più e forse anche di un incessante e ciclico “Caro figlio...”

Manuela Barbato

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