La danza contemporanea italiana alla Biennale di Venezia? Performance, calzini e cabaret!

 

Biennale Danza sceglie 100 artisti per il XV festival internazionale della danza contemporanea, a rappresentare l’Italia c’è un performer. Nelle altre discipline (musica e teatro) c’è uno spazio definito per la performance che ha una sua storia e un suo carattere, ma per la danza no e si crea un miscuglio penalizzante per entrambe le forme d’arte.

In ogni disciplina artistica la performance nasce tra gli anni ‘60 e ‘70 del secolo scorso in America per propagarsi in tutto il mondo, specie in Europa, ma solo la danza contemporanea (più che altrove in Italia) soffre di una penalizzante mancata distinzione tra danza e performance. Se nel Teatro - inteso come prosa - e nella Musica la differenza con la performance pare essere più netta, mi chiedo perché la danza contemporanea in Italia – e soprattutto nei Festival – che ha una sua specificità, che ha costruito a fatica una sua dignità, che ha sviluppato tecniche e linguaggi articolati in una magica mescolanza di regole e rottura di tutte le regole, che ha scomposto e ricostruito sapientemente e scientificamente il movimento e ha sublimato la fruizione del corpo iperversatile, libero, ma disciplinato dal movimento coreografato debba combattere fino all’ultimo sangue con la sorella performance? Danza, musica, prosa sono tutte sorelle della performance, perché tutte usano il corpo, l’azione. Eppure, solo la danza contemporanea (in Italia) non riesce ad imporre un distinguo. Noi osservatori, programmatori, pubblico restiamo confusi davanti ad una situazione bizzarra che continua a ripetersi da anni e che penalizza tutti: i Festival di danza contemporanea spingono i performer, gli operatori pescano dai Festival per le proprie programmazioni teatrali, il pubblico ritrova in teatro la performance e non uno spettacolo di danza contemporanea ancora, ancora e ancora.e si sente smarrito e confuso. Attenzione, io non faccio una distinzione in termini di spessore artistico utilizzando categorie qualitative e di presunta superiorità di una disciplina rispetto ad un’altra, io invoco la dignità nella distinzione. E ancor di più la trasparenza negli intenti e nelle motivazioni scatenanti determinate scelte.


Le motivazioni a sostegno delle scelte

Nelle sezioni Musica e Teatro che si tratti dei Leoni d’Oro e d’Argento, del College o della programmazione le motivazioni riguardano l’alto livello tecnico ed espressivo, la complessa scrittura armonica, il contributo di elevato spessore artistico e sociale, la maturità raggiunta. Nella sezione Danza compaiono due diramazione da diversi anni, per gli stranieri si parla di carriere strepitose, tecnica, coreografia, lavori di immenso impatto visivo e creativo e maturità artistica, per gli italiani si spazia tra avanguardia, innovazione, e l’essere emergente sulla scena. Qualcosa non mi quadra e da anni seguo con interesse per cercare di comprendere il ragionamento dietro queste (bizzarre) scelte.

La Biennale Danza (per ciò che concerne l’Italia) gira da troppo tempo intorno allo stesso tipo di prodotto artistico, agli stessi nomi che poi collaborano tra loro. In questa edizione l’unico artista italiano per la danza è il veneto Marco D’Agostin con il suo Rendez-vous, circa 50 minuti di presenza sul palcoscenico di cui forse 8 di movimento danzato, il resto è un monologo in italiano e in inglese con microfono, oggetti vari per lo più in stile anni ‘80 ‘90, coriandoli, ironia e cabaret. Il lavoro è ben fatto e l’artista è intenso, ma la performance deve pretendere uno spazio che sia suo e suo soltanto. Nasce come atto unico e irripetibile, la sua natura sono la denuncia sociale e l’urgenza emotiva e il performer solitamente agisce live nell’evento inaugurale per poi lasciare una versione video del lavoro in esposizione per un determinato periodo concordato con il gallerista o comunque con lo spazio in questione. Perché si sta forzando così tanto la mano? Perché non dare alla performance il suo spazio – sia fisico che ideale – all’interno di quello che ormai è percepito come uno tra i più importanti festival internazionali delle arti contemporanee? Il replicare sera dopo sera snatura la performance : il pathos, l’intensità, la tensione nervosa che percorre e anima il corpo alla prima interpretazione perdono vigore e l’atto creativo - violentato da un mercato che non è il suo - diventa spettacolo con repliche.


Ad ogni modo, qualcosa non è chiaro, chiedo per un amico

Nella scorsa edizione il Leone d’Oro è stato conferito ad Alessandro Sciarroni, coreografo-performer e l’anno precedente a Michele Di Stefano, coreografo-performer, e allora? E allora il file rouge che ho notato e che collega diverse storie di coreografi-performer programmati o premiati alla Biennale non mi piace, perché evidenzia un sistema chiuso difficile da scardinare. I nomi dei coreografi italiani premiati o programmati alla Biennale negli ultimi anni sono strettamente connessi tra loro in una continua collaborazione fatta di direzioni artistiche, produzioni e programmazioni reciproche. Cercando a ritroso sono arrivata al 2013 a quando cioè Virgilio Sieni, l’allora direttore artistico subentrato ad Ismael Ivo (danzatore e coreografo brasiliano di recente scomparso) conferisce il Leone d’Argento a Michele Di Stefano e quello d’Oro l’anno successivo. Le precedenti collaborazioni tra i due sono note, ma la cosa non mi stupisce fino a quando mi rendo conto che proprio nel 2013 Sciarroni comincia il suo percorso di docente e coreografo per il College al fianco di Sieni e nel 2019 riceve il Leone d’Oro dalla nuova direttrice Marie Chouinard; nel 2020 Sciarroni è nei crediti di spettacoli selezionati (non direttamente suoi, ma come mentoring) e fa la sua comparsa D’Agostin come “occhio esterno”. Ancora nel 2020 D’Agostin è invitato come coreografo italiano (come accadde per Sciarroni) al College (il coreografo straniero era Ohad Naharin della Batsheva Dance Company !) e programmato con Avalanche., andato in scena già nel 2018 al Festival La Democrazia del Corpo diretto da Sieni. Passa un anno, siamo al 2021, oggi, e il giovane performer veneto è l’unico nella sezione danza a rappresentare l’Italia. Mi chiedo: sarà il prossimo Leone? Perché pare ci sia una catena invisibile (o quasi) che collega i Leoni (italiani) e gli spettacoli programmati (italiani) a nomi presenti nell’organigramma della Biennale Danza sotto forma di docenti, mentoring, coreografi per il College negli anni immediatamente precedenti.



Collaborazioni s-comode

Nel Best Regards di D’Agostin selezionato quest’anno spicca la drammaturgia di Sciarroni, nel celebre Joseph di Sciarroni compaiono invece tra i crediti Di Stefano e D’Agostin, ma il culmine si raggiunge con il Festival Grandipianure del 2018 la cui direzione artistica è di Michele Di Stefano e sono programmati tre spettacoli, indovinate di chi? Sieni, Sciarroni, D’Agostin.

Qualcosa mi porta a pensare che il neo direttore della sezione Danza Wayne McGregor poco c’entri con le scelte che riguardano gli artisti italiani, ma sarebbe interessante sapere cosa pensi di tutto ciò, partendo dal presupposto che le sue scelte tra premi, collaborazioni e programmazione sono di tutt’altro genere e con tutt’altre motivazioni. Perché spingere a forza la performance e un determinato tipo di taglio artistico per anni con motivazioni forzate e sprezzanti della varietà di stili della danza contemporanea italiana? Perché incancrenirsi per tanto tempo in un’unica direzione? Perché gli artisti italiani programmati e quelli premiati sembrano calcare sempre lo stesso solco e una delle più prestigiose vetrine della danza contemporanea risulta non essere rappresentativa di una nazione?

Creare una sezione dedicata alla performance è un’urgenza che serve a scardinare un sistema atto a spingerla a scapito della danza pur di trovarle un posto e darebbe dignità a due settori che troppo spesso si mescolano e si confondono sottraendosi spazio e occasioni a vicenda, laddove la performance impone la sua presenza in luoghi che rischiano di snaturarla.

Se la performance alla Biennale avesse nella sezione Danza un suo spazio, non bisognerebbe investigare per trovare risposte a domande che fanno rabbia come: dov’è la danza contemporanea italiana alla Biennale di Venezia?

Bisogna con estrema urgenza mettere fine a questo sistema e a questo mercato costruito ad arte e ricordarsi, appunto, che di arte si parla, la più grande paladina di libertà e giustizia.

                                      


                                                              Manuela Barbato 

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