La privatizzazione delle Fondazioni Lirico-Sinfoniche e la scomparsa dei Corpi di Ballo
A PARTIRE DAL 1996 GLI ENTI LIRICI VENGONO TRASFORMATI IN FONDAZIONI LIRICO-SINFONICHE DI DIRITTO PRIVATO EFFETTUANDO UN PROGRESSIVO PROCESSO DI PRIVATIZZAZIONE DI REALTÀ FINO A QUEL MOMENTO PUBBLICHE. ECCO QUALI SONO LE CONSEGUENZE OGGI.
Il comparto cultura produce il 16% del PIL, poco meno di 100 mld/€ l’anno (300 mld/€ considerando l’indotto generato) e dà occupazione a 6 lavoratori su 100. Va da sé quindi che in un Paese pregno di cultura come il nostro la politica difenda e valorizzi gli enti, gli artisti e gli operatori che dedicano la vita ad arricchire di contenuti quella degli altri. Ma non è così, infatti il Governo investe per la cultura appena lo 0,6% delle proprie risorse: ecco spiegato l’affanno di un intero settore. Prendiamo una lente d’ingrandimento e puntiamola su una delle più rappresentative realtà del settore: le Fondazioni Lirico-sinfoniche ex Enti lirici.
Di Fondazioni se ne contano 14 in tutta Italia: Fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari, Teatro Comunale di Bologna, Teatro Lirico di Cagliari, Maggio Musicale Fiorentino, Teatro Carlo Felice di Genova, Teatro San Carlo di Napoli, Teatro alla Scala di Milano, Teatro Massimo di Palermo, Teatro dell’Opera di Roma, Accademia Nazionale di S. Cecilia di Roma, Teatro Regio di Torino, Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste, La Fenice di Venezia e l’Arena di Verona. Enti che, a partire dal 1996 con la cosiddetta legge Veltroni (legge 367/1996), vengono trasformati, dall’allora Ministro per i Beni Culturali e Ambientali – il cui titolo di studi è un diploma professionale ‒, in Fondazioni Lirico-sinfoniche di diritto privato effettuando un progressivo processo di privatizzazione di realtà fino a quel momento pubbliche.
LA DESTATALIZZAZIONE, LE LOGICHE DEL RISPARMIO E L’INGRESSO DEI PRIVATI
Questo bizzarro fenomeno vede la luce nel periodo di grande privatizzazione degli enti pubblici e una conseguente – e diremmo auspicata – destatalizzazione volta a perseguire logiche di risparmio economico per le casse dello Stato. Via libera agli investitori privati nei CdA delle Fondazioni e quindi negli organi decisionali (art. 10 comma 3 d.l. 345/2000) che apportano un ingente contributo al patrimonio finanziario e consentono così la riduzione di quello pubblico (da qui la progressiva contrazione del Fondo unico per lo spettacolo il c.d. Fus) e l’introduzione sempre più massiccia di decreti ministeriali che fissano le regole per accedere ai finanziamenti. Logiche imprenditoriali che poco hanno a che fare con l’educazione culturale di un Paese, ma che piuttosto serbano progetti miopi che portano all’organizzazione di numerosi eventi privati ‒ molti dei quali indegni e trash a dismisura ‒ tra le mura dei Teatri Lirici pur di accaparrarsi donazioni confondendo il nobile mecenatismo con le sponsorizzazioni che sono ben altra cosa.
LA SITUAZIONE DEL TEATRO ALLA SCALA
Vittoria Valerio nel Lago dei Cigni. Teatro alla Scala, Milano. Photo Federica Capo |
L’unica Fondazione italiana a cui la legge del ’96 sembra essere cucita addosso è il Teatro alla Scala, che si aggiudica sempre la parte più cospicua dei finanziamenti pubblici e la cui compartecipazione di investitori privati vanta la più alta percentuale tra tutte le Fondazioni italiane. Per il resto, per le altre realtà, la legge Veltroni è stata l’inizio della fine per la produzione artistica. Tutto questo, è evidente, non consente lo sviluppo omogeneo della produzione culturale. Forse bisognava prima portare le 14 Fondazioni allo stesso livello in quanto a finanze e stabilità e poi intervenire con l’ingresso dei privati mediante un piano strategico volto ad aumentare il potere attrattivo dei teatri pubblici sugli investitori, ad esempio con la totale defiscalizzazione dei contributi. Invece l’indiscriminata applicazione della legge Veltroni ha acuito un divario già immenso lasciando in vita e nel pieno delle proprie forze soltanto le realtà con le spalle più larghe. Si potrebbe dire che la soluzione debba essere ricercata nella scaltrezza dei vertici aziendali – perché ormai di aziende si tratta ‒ di reperire e attrarre a sé sempre più capitali privati, ma questo non accade, appunto, per incapacità gestionale e ci si ritrova in un circolo vizioso. La legge 367/1996 non ha raggiunto gli obbiettivi preposti e il Ministero si trova in un ciclo infinito di controlli e prese in carico di situazioni da risanare e ulteriori costi da sostenere. L’economia mista ideata dall’allora Ministro ha complicato di gran lunga la gestione finanziaria degli ex Enti lirici stringendoli in una morsa fatta di tentativi di contenimento della spesa che si ripercuotono per lo più sulle figure artistiche – anche se nelle direttive si legge che a essere ridotte devono essere in primis le figure amministrative e tecniche fino alla dirigenza. Come un’epidemia la riduzione degli elementi o addirittura la drastica cancellazione dell’intero Corpo di Ballo ha infettato lo stivale da nord a sud e a oggi su 14 Fondazioni soltanto 4 vantano una compagnia di danza, nonostante in nessun decreto compaia la possibilità, in caso di squilibrio finanziario, di licenziamento collettivo per cessazione del Corpo di Ballo ed è proprio per questo che lo smantellamento a effetto domino di dieci compagnie di balletto sembra essere una strategia politica che, per la solita dilagante ignoranza o per sfrontata superficialità, prevede il sacrificio del comparto ballettistico fino a farlo definitivamente sparire con finalità di risparmio.
LA SCOMPARSA DEI CORPI DI BALLO E IL “CASO NAPOLI”
A oggi non sono serviti appelli e petizioni a far tornare in vita i Corpi di Ballo liquidati, forse soltanto al San Carlo di Napoli – tra le nove fondazioni in risanamento ‒ si sta provando a tutelare il comparto coreutico in materia di contratti grazie all’intervento del sindaco Luigi de Magistris – presidente del CdA del lirico partenopeo –, che in una precedente intervista firmata da chi scrive dichiarava: “Sono molto vicino e seguo con particolare apprensione la situazione dei Corpi di Ballo delle Fondazioni Lirico-sinfoniche in Italia e voglio mettere in campo un impegno concreto”. È infatti del 5 ottobre scorso la pubblicazione di un comunicato da parte delle segreterie territoriali e regionali di Napoli e Campania (SLC-CGIL FISTel-CISL UILCOM-UIL FIALS-CISAL) in cui si legge: “Si è svolto oggi, presso la Città Metropolitana, alla presenza del Sindaco Luigi de Magistris, l’incontro con i dirigenti del Teatro di San Carlo e le scriventi OO.SS. La Città Metropolitana ha confermato l’ulteriore impegno economico per il Teatro di San Carlo con il quale sarà possibile superare il precariato storico presente nel Massimo Napoletano con particolare riferimento ai settori Ballo e Coro. Nello specifico il consolidamento degli organici prevedrà, inizialmente, 40 unità per il Ballo e 80 unità per il Coro a tempo indeterminato”.
Alessandro Staiano e Annachiara Amirante. Teatro San Carlo, Napoli. Photo F. Squeglia |
Fabio Gison, già ballerino solista al San Carlo e oggi responsabile settore Ballo FISTel-CISL, dichiara: “La vita artistica di un danzatore scorre molto rapida e questi lunghi anni di attesa non hanno giovato alla serenità dei danzatori precari. L’impegno preso dalla Città Metropolitana con la Direzione del Teatro e le Organizzazioni Sindacali fa ben sperare in un consolidamento della Compagnia di Balletto e la risoluzione delle problematiche dei tersicorei precari”. Con le persone giuste al posto giusto: ministri della cultura con formazione in ambito artistico culturale, dirigenti con esperienze di successo, sovrintendenti con competenze e lungimiranza, il comparto culturale italiano decollerebbe, perché – e forse questo i politici non lo sanno – di artisti lodevoli la nostra terra ne è piena e di pubblico assetato di cultura ce n’è un mare, ma ciò che manca sono le figure dirigenziali e politiche di riferimento che fino a oggi hanno dimostrato di capire ben poco – ricordate “con la cultura non si mangia”? ‒ e di saper fare ancora meno.