Intervista a Wim Vandekeybus in giro per Napoli

ph. F. Capo

Wim Vandekeybus chiude il tour mondiale per i vent’anni di In Spite of Wishing and Wantingal Teatro Bellini di Napoli. La compagnia Ultima Vez è in cartellone per la prima volta, perché purtroppo in Italia viene chiamata solo per festival e rassegne, e mai prima d’ora era andata in scena più a sud di Roma. Una carovana di 40 persone: amici e artisti sono a Napoli per la chiusura del tour durato due anni. La città affascina Vandekeybus fino al punto di camminare senza meta guidato da un’ispirazione inaspettata.
L’unica intervista l’ha rilasciata ad Artribune – un’intervista anomala tra aperitivi e chiacchierate bisbigliate durante le prove.

L’INTERVISTA

ph. F. Capo

In Spite of Wishing and Wanting, vent’anni tra la creazione e l’ultimo tour. Cosa è cambiato nei danzatori a distanza di quasi una generazione? L’approccio alla sala prove e il livello performativo degli Anni Novanta e del 2018: cosa è diverso?La fine degli Anni Ottanta e gli Anni Novanta sono stata una scoperta, è stato come piantare un albero in un terreno dolce. Niente Internet e nessuna accessibilità globalizzata. Le creazioni nascevano da un’intuizione e non da una conoscenza, ne scaturiva materiale creativo che cambiava ciò che era in precedenza. Mi informavo riguardo ciò che era accaduto nel teatro, nella danza, nelle arti dello spettacolo e lo facevo in biblioteca, soltanto dopo su Internet. In quegli anni le informazioni non erano esplicite, ma necessitavano di un’interpretazione su cui creare. Rifiutai fortemente di riferirmi a cose già esistenti, ma ovviamente ne fui influenzato lo stesso: tentavo di reinventare la mitologia pur rendendomi conto che quei racconti esistevano da molto prima di me e delle mie intuizioni.
In che modo hai lavorato?Continuavo a forzare, a lavorare con professionisti non vedenti, persone anziane, artisti rock, filmare storie e mescolare i media, tutto per evitare la deviazione in forme d’arte separate. Non ho mai studiato niente di quello che faccio ora: danza, teatro, cinema, e questo ha reso indefinibile il mio lavoro. Oggi combatto l’autoreferenzialità che cerco di evitare portando i progetti in una forma sempre lontana da me stesso e dal mio mondo, ma i ballerini sono super informati già prima di entrare nello studio, così incontro sempre persone già strutturate. Tuttavia è interessante che io sia più vecchio ed esperto di loro, perché posso cercare in loro la freschezza, l’innocenza evitando la loro conoscenza. Laddove tutti sanno il gioco della creazione è finito.
Con In Spite viene in mente Rousseau e il saggio Sur l’origine et la fondation de l’inégalité parmi les hommes: “Il primo che dopo aver recintato un pezzo di terra disse: ‘Questo è mio!’ e ha trovato altri uomini così ingenui da credergli, è stato il primo fondatore della società. Quanti crimini, conflitti, orrori, avrebbe risparmiato all’umanità colui che, distruggendo lo steccato, avesse gridato: Non ascoltare questo impostore, i frutti sono di tutti e la terra di nessuno’”. I sogni, i desideri sono campi di battaglia dell’uomo contro l’uomo: si può invertire la marcia e tornare a uno stato di uguaglianza?Questo è effettivamente il tema di In Spite: gli individui sono ladri, si appropriano dei sentimenti altrui e dimenticano di ascoltare la propria voce interiore occupati a rubare i sogni degli altri. Questo lavoro parla della pericolosa passione degli umani che vogliono dare un senso alla vita a tutti i costi. Il mio scopo è trovare un umorismo teatrale che esasperi la realtà, così da poter ridere della verità celata. Quello di In Spite è soprattutto un mondo maschile, un po’ stupido, animalesco e impulsivo. Il mio lavoro non è mai concettuale, ma conflittuale. Potrei dire che questo lavoro non è di questi tempi, ma posso anche dire che è atemporale in quanto non parla solo del presente, l’elemento di finzione è ipotetico e filosofico, descrittivo e non narrativo, questo rende In Spite un lavoro trans-temporale. Un attore possiede le sue emozioni e le sue opinioni proprio come il primo uomo che ha recintato una terra.
Di Napoli ti ha attratto la lingua, l’energia e hai detto di essere ispirato a creare qualcosa di nuovo. Ci sarà dunque un progetto ispirato a Napoli?Mi piace la città arcaica con le sue regole arcaiche. È eccezionale. Il nord Europa soffre sotto le regole create ad hoc come in molte altre parti del mondo. La libertà è caos e imprevedibilità e qui questo ancora sussiste, dà una linfa nuova alla vita di tutti i giorni. Mi piace la storia della città dell’accoglienza per i migranti, mi piace la storia dei bambini neri che parlano in dialetto perché figli di soldati americani con donne del posto durante la Seconda guerra mondiale: grazie per i tuoi racconti. Dopo essere stato qui per qualche giorno, non potrei mai creare un ritratto della città così come molti la vedono secondo i soliti cliché. Non mi piace il modo di raccontarla come fanno i registi d’oggi, perché si ha soltanto un prodotto di moda nel cosiddetto teatro impegnato. Io invece vorrei trovare il tempo di raccontare un’altra realtà di Napoli che affiancherebbe la più nota visione di questa città e i due racconti si rafforzerebbero a vicenda. 
La danza, il teatro, la musica, il cinema si mescolano nel tuo atto creativo. Da dove prende origine il tuo approccio filosofico in cui condensi l’ancestrale e l’avanguardia, l’animalità e lo slancio verso l’infinito?Dimentichiamo ciò che hanno cercato di insegnarci così preziosamente. Perché balliamo? Per dire cosa? Per parlare a noi stessi o agli altri? Per la nostra stessa gioia? Non parliamo mai della danza, non ci insegnano il punto in cui tutto iniziò e perché iniziò. Sono tutti impegnati a insegnarci tecniche e passi precisi, ma dimenticano di insegnarci ciò che è più prezioso. Accidenti, abbiamo dimenticato l’inizio! Molto tempo fa il trovatore viaggiò di villaggio in villaggio per cantare il suo messaggio. Aveva qualcosa da dire. Il canto era il suo mezzo per raggiungere gli ascoltatori e diffondere la parola. Capì che la musica aveva un impatto emotivo diretto nella sua forma più arcaica. Creò metafore che facevano sentire bene le persone, le faceva sognare e nascondeva la verità più dura tra le righe del coro. Il rituale della lingua non parlata con tutti i suoi significati nascosti, la danza per intenderci, viene dall’interno e si gonfia fino ad avere bisogno di fluire naturalmente da dentro a fuori senza perdersi in rigide strutture. Tutte le abilità tramandate di generazione in generazione e conservate nelle scuole sono passate dall’essere “espressione indefinibile” a qualcosa di ordinato in diversi generi con diversi corsi di formazione.
Cosa è successo alla danza in particolare?La danza si è strutturata fino all’inverosimile, perdendo la purezza e il suo carattere ritualistico. L’accessibilità è stata fornita e la danza è diventata qualcosa che doveva essere compresa da tutti. Analizziamo, cerchiamo di capire e dare un senso: queste tendenze ci fanno andare lontano dal nucleo in cui tutto ebbe inizio. La purezza, gli istinti e tutto ciò che non dovrebbe essere pienamente colto in termini e definizioni fanno posto a qualcosa che non deve essere toccato o sentito ma solo capito, venduto e comprato. Oggi non si “sente” più si cerca sempre di “capire”, vendere e comprare. 
Dall’istinto alla struttura. Cosa ha comportato nel mondo del teatro organico questo scivolamento verso una dimensione meno sensoriale e più legata al mercato?I teatri, i festival, le scuole sono affari in un immenso mercato dove tutto è da comprare. Ma se tutto è acquistabile e già presente sul mercato in più versioni, cosa c’è ancora da scoprire nella sua originalità? Cosa può essere creato? Come può la danza, ormai ridotta a tecnica, essere ancora un mezzo che inventa? Solo se osiamo guardare in profondità e consideriamo il corpo come uno strumento “unico” in una moltitudine possiamo inventare. La danza è un mezzo che può riportarci all’emozione arcaica e trasformarla in una comunicazione toccante senza parole. Queste espressioni non possono essere concettuali, devono essere tangibili e per poterle toccare devono venire dall’intestino ,dall’interno del nostro io. La danza è ribellione interiore che richiede una fisicità diretta, che sente il bisogno di toccare, sudare, rischiare. La danza costringe a cercare e attraversare confini, a provare sentimenti primari come euforia e dolore. La danza ci aiuta a esplorare il ricordo del periodo più fragile di tutti: l’adolescenza in cui ti sentivi onnipotente e pensavi di essere immortale. Ma facciamo attenzione, non è l’avanzare dell’età che ci fa perdere quelle sensazioni, è molto altro. Bisogna rischiare come si faceva da ragazzi, quando si pensava di poter correre e saltare e cadere senza morire. Non si può semplicemente ballare.
ph. F: Capo

– Manuela Barbato

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