Antonello Tudisco e il Respiro Collettivo

Fin dal primo istante in cui mi sono seduta ho potuto confermare l'idea che avevo in testa: solo pochi esseri umani sono artisti! L'ho pensato da subito e pur essendomi data del tempo per decidere questa piccola certezza non mi ha mai lasciata.
Mezza sala, scena aperta, la camminata affannosa e sempre più incalzante descrive un ampio cerchio sul palco in penombra. La performance è già cominciata quando il pubblico inizia a riempire la sala e ad occupare le sedie, sento il rumore dei piedi nudi battere il linoleum, vedo lo sguardo del danzatore sfruttare sempre gli stessi due punti di riferimento, avverto lo spostamento d'aria che mi tocca il viso e smuove i capelli. Un solo unico elemento mi disturba profondamente: qualcuno tra la gente resta distrattamente a conversare senza far caso a quanto intorno già accade. Forse dire che siamo tutti artisti è come dire che non lo è nessuno! Non sono in grado di condividere questa scelta semantica perché la rarità e la singolarità che caratterizzano l'artista non riesco a concepirle come universalmente distribuite: c'è un così alto grado di percezione sensibile in chi ama l'arte che immaginare di non accorgersi di un performer che crea atmosfere e richiami spirituali, mi lascia sconcertata e mi riporta alla mia prima decisione: gli uomini non solo non sono tutti artisti, ma non sono neanche tutti in grado di sentire l'arte quando gli passa accanto talmente vicino da smuovergli i capelli.
In un buio totale solo il respiro del danzatore riempie la sala e dà insieme serenità e tormento, leggerezza del soffio e angoscia dell'affanno: ad occhi chiusi il suo respiro diventa anche il mio e ansiosa aspetto. 
Un connubio di danzatori tanto diversi tra loro, sia fisicamente che nella qualità del movimento, ma altrettanto affiatati e in sintonia da riuscire in ogni parte. Momenti di contact tanto naturali da sembrare improvvisati, perché a mio avviso il contact funziona quanto più è legato all'attimo e laddove lo si va a strutturare rischia di perdere il trasporto emotivo da cui nasce.
Tanto giovani quanto maturi i danzatori hanno interpretato l'idea del coreografo riuscendo a mettere in scena il rischio quotidiano di smarrire se stessi aderendo ad una società che ci vuole uguali e simmetrici, monotoni e grigi. Fasi di depressione, alternate a fasi di isterica consapevolezza, hanno reso palpabile la dimensione in cui ognuno di noi si trova e da cui soltanto attraverso l'atto creativo può liberarsi.
L'interpretazione morbida e malinconica di Valentina Schisa ha caratterizzato la scena, la sua scia nostalgica e insieme rabbiosa non si disperdeva mai. Manolo Perazzi, in fine, ha acceso la luce: un corpo, il suo, in grado di emanare energia, una mimica facciale credibile e dirompente che ha parlato tacendo vibrando dell'entusiasmo che saliva da un corpo in fibrillazione. Soltanto
pochi momenti hanno rallentato a tal punto il ritmo da far perdere la tensione creata.
Non accetto l'idea per cui tutti gli esseri umani siano artisti, anzi al contrario credo che l'arte sia di pochi esseri in grado di sentire e percepire con una profondità che spaventa e dilania e che porta tanto dolore e tanta gioia quanto gli altri esseri più superficiali non potranno mai provare, e forse sono i secondi quelli fortunati.

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